Il Consiglio di Stato francese dice sì al “Meat Sounding” per prodotti a base vegetale

di Maria Laura Grilli
Denominazione dei prodotti a base vegetale: un tema dibattuto
La denominazione dei prodotti a base vegetale che, per aspetto, consistenza o sapore, evocano alimenti di origine animale è da anni al centro di un ampio dibattito giuridico e normativo a livello europeo. Il tema si inserisce in un contesto più ampio di evoluzione del mercato alimentare e di crescente attenzione verso la sostenibilità e le scelte alimentari alternative.
Al centro della discussione vi è la possibilità di impiegare termini tradizionalmente associati a prodotti di origine animale – quali “bistecca”, “hamburger”, “filetto” o “salsiccia” – per designare alternative di origine vegetale. L’adozione di tali denominazioni risponde all’esigenza di rendere questi prodotti più familiari e appetibili per i consumatori, evocando la bontà di prodotti già conosciuti. Tuttavia, la questione solleva interrogativi di natura giuridica e commerciale, in particolare per quanto riguarda la corretta informazione del consumatore, il corretto funzionamento del mercato e la compatibilità di eventuali restrizioni con il diritto dell’Unione europea.
La rilevanza della tematica si sviluppa in un contesto in cui l’industria alimentare è in rapida evoluzione e le alternative vegetali potrebbero rappresentare una risposta, seppur parziale, alla domanda di modelli alimentari più sostenibili, nonché all’incremento continuo del consumo di carne e proteine animali (Annuario Statistico 2024 della FAO). Prodotti come hamburger di verdure, salsicce di tofu o bistecca vegetale sono ormai parte del linguaggio commerciale e dell’esperienza quotidiana dei consumatori, consolidandosi nel mercato alimentare e nella grande distribuzione. Un fenomeno che viene definito come “Meat sounding” (Demartini, 2022) e che ha alimentato un acceso dibattito, caratterizzato da posizioni contrastanti: da un lato, vi sono coloro i quali sostengono la necessità di vietare l’utilizzo di denominazioni legate alla carne per i prodotti a base vegetale, dall’altro vi sono coloro i quali ritengono che tali restrizioni non siano giustificabili e siano anzi potenzialmente in contrasto con i principi sanciti dai regolamenti europei in materia.
Nel contesto europeo sono diversi i casi di Stati che, attraverso disposizioni normative, hanno sancito il divieto di denominazione di alimenti a base vegetale con termini che richiamassero alimenti a base animale. Tra questi, l’Italia dove il legislatore è recentemente intervenuto in materia con la legge 1° dicembre 2023, n. 172, il cui art. 3 introduce il “Divieto della denominazione di carne per prodotti trasformati contenenti proteine vegetali” (Panebianco, 2023; Formici, 2023). Oltre al caso italiano, però, appare di interesse l’analisi delle più attuali vicende che hanno interessato la Francia ove la recente normativa su tali prodotti è stata oggetto dapprima della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e, da ultimo, del sindacato del Conseil d’État.
Nel presente articolo si intende analizzare l’evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia di denominazione dei prodotti a base vegetale, con particolare attenzione ai giudizi della CGUE e alla conseguente decisione del Consiglio di Stato francese. L’analisi prenderà avvio dalla sentenza con cui il Conseil d’État ha annullato il decreto nazionale che introduceva restrizioni sull’uso di termini tradizionalmente associati a prodotti di origine animale per designare alternative vegetali. Per comprendere meglio la decisone dei giudici francesi, sarà necessario fare un passo indietro e analizzare la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 2024, sollecitata proprio dal rinvio pregiudiziale disposto dal Consiglio di Stato. Tale sentenza dei giudici di Lussemburgo ha rappresentato un risultato piuttosto dibattuto, essendosi posto in contrasto o quantomeno non in linea di continuità con il proprio orientamento precedente determinato in una sentenza del 2017.
Francia e Meat Sounding: un segnale di apertura ai prodotti vegetali?
Il 28 gennaio 2025, il Conseil d'État con la sentenza n. 492839 ha annullato il decreto n. 2024-144 del 26 febbraio 2024 che vietava l’uso di denominazioni tradizionalmente associate ai prodotti a base di carne per alimenti contenenti proteine vegetali.
Il decreto stabiliva il divieto di termini come steak, bistecca, filet e salsiccia per descrivere prodotti a base vegetale, prevedendo sanzioni amministrative in caso di violazione. Come indicato nella nota esplicativa collocata nella parte introduttiva del decreto, il provvedimento «stabilisce l'elenco dei termini il cui uso è vietato per la designazione dei prodotti alimentari contenenti proteine vegetali (allegato 1) e l'elenco dei termini autorizzati per la designazione dei prodotti alimentari di origine animale che possono contenere proteine vegetali, nonché la percentuale massima di proteine vegetali che tali prodotti possono contenere per poter utilizzare questi termini (allegato 2)» (tr. propria).
Il provvedimento francese mirava dunque a regolamentare in modo stringente l’etichettatura degli alimenti, con l’obiettivo di prevenire eventuali ambiguità e garantire una comunicazione chiara e trasparente ai consumatori, evitando possibili confusioni tra prodotti a base di carne e alternative vegetali. Le sanzioni prevedevano multe fino a 1.500 euro per le persone fisiche e fino a 7.500 euro per le persone giuridiche che utilizzavano denominazioni riservate ai prodotti a base di carne per descrivere alimenti contenenti proteine vegetali.
Il divieto di utilizzare i soprarichiamati termini per indicare prodotti plant-based aveva comportato la reazione di alcune aziende impegnate nella produzione di tali prodotti – tra cui Protéines France, Union végétarienne européenne (EVU), Association végétarienne de France (AVF), Beyond Meat Inc. –, le quali avevano impugnato il provvedimento dinnanzi al Conseil d’État, contro il Ministre de l'Économie, des Finances et de la Souveraineté industrielle et numérique, sostenendo che il decreto fosse in contrasto con il diritto dell’Unione europea.
Tra le motivazioni addotte, le aziende ricorrenti, sostenevano che il decreto fosse contrario al Regolamento (UE) n. 1169/2011, che disciplina l’etichettatura alimentare nell’Unione europea. Inoltre, evidenziavano come il decreto costituisse una restrizione ingiustificata alla libera circolazione delle merci, non offrisse un’effettiva tutela del consumatore – data l’assenza di prove che tali prodotti potessero generare confusione – nonché arrecasse un danno al settore delle proteine vegetali, rappresentando infine un freno alla transizione ecologica. In definitiva, sostenevano che il divieto limitava la crescita del mercato delle alternative vegetali, fondamentali per la sostenibilità ambientale e la riduzione delle emissioni, come riconosciuto anche nella Risoluzione del Parlamento Europeo del 19 ottobre 2023 sulla Strategia europea per le proteine (2023/2015(INI)).
Il Consiglio di Stato francese, chiamato a decidere su tale questione, aveva rinviato alla Corte di Giustizia dell’Unione europea la quale si è poi pronunciata con sentenza del 4 ottobre 2024 (C-438/23) a favore dei ricorrenti, introducendo un elemento di svolta nella regolamentazione delle denominazioni dei prodotti a base vegetale. La Corte ha infatti ritenuto che il Regolamento (UE) n. 1169/2011 in materia di etichettatura alimentare già garantisca una tutela adeguata dei consumatori, rendendo superflue ulteriori restrizioni a livello nazionale. Secondo la pronuncia, il consumatore medio è in grado di distinguere tra prodotti contenenti proteine vegetali e prodotti a base di carne, a condizione che l’etichettatura fornisca informazioni chiare e trasparenti.
Inoltre la CGUE ha affermato che una normativa nazionale non può vietare l’uso di termini come bistecca o hamburger per prodotti a base vegetale, a meno che non esistano specifici criteri legali che regolamentino tali denominazioni a livello comunitario. In assenza di tale denominazione ufficiale, un divieto generalizzato come quello introdotto dal decreto francese risulterebbe in contrasto con i principi di armonizzazione del mercato interno e con la libera circolazione delle merci all’interno dell’Unione europea.
Da ultimo, la CGUE ha stabilito che le denominazioni tradizionalmente associate a prodotti di origine animale possono essere utilizzate per alimenti a base vegetale, purché l’origine vegetale del prodotto sia chiaramente indicata in etichetta, evitando così qualsiasi rischio di inganno per il consumatore. Per cercare di comprendere al meglio le motivazioni della decisione dei giudici di Lussemburgo in materia di meat sounding, si può ritenere che l’obiettivo principale fosse quello di trovare un punto di equilibrio tra diverse esigenze: da un lato, l’evoluzione del linguaggio nel settore alimentare e le nuove abitudini di consumo; dall’altro, la necessità di applicare norme europee che, in assenza di un’interpretazione evolutiva, sembrano lasciare poco margine di adattamento alle nuove esigenze del mercato. Ciò che ha fatto la Corte, pur destando pareri contrastanti sul merito (Aversano, 2025), è stato cercare di conciliare il diritto delle imprese di comunicare in modo efficace e comprensibile con il dovere di tutelare i consumatori, il tutto nel rispetto del principio di proporzionalità previsto dal diritto dell’Unione.
Tale scelta interpretativa riflette la volontà di evitare divieti troppo restrittivi che, pur giustificati dall’esigenza di protezione dei consumatori, rischiano di limitare la libera circolazione delle merci e la concorrenza nel mercato unico. Secondo il diritto europeo, infatti, ogni restrizione deve essere giustificata, necessaria e proporzionata rispetto all’obiettivo che si intende perseguire. La CGUE, con questa pronuncia, sembra promuovere un’idea più moderna e flessibile del diritto alimentare: un diritto cioè in grado di adattarsi ai cambiamenti del linguaggio e alle nuove tendenze produttive, senza per questo rinunciare alla chiarezza e alla trasparenza nei confronti del consumatore. In questo senso, secondo taluni, la sentenza contribuisce a costruire un quadro normativo più coerente con la realtà del mercato e più in sintonia con le politiche europee in materia di sostenibilità, innovazione e transizione alimentare. (Aversano, 2025, Abbondandolo, 2024).
A seguito della già richiamata sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, il caso è tornato all’attenzione delle autorità giudiziarie francesi. In particolare, il 28 gennaio 2025, il Consiglio di Stato, basandosi sulla lettura disposta dai giudici di Lussemburgo, ha annullato il decreto n. 2024-144 del 26 febbraio 2024, già oggetto di contestazione. La decisione dei giudici francesi si pone dunque in linea con quanto stabilito dalla CGUE, confermandone l’orientamento e recependone pienamente i principi nell’ordinamento nazionale.
Il Consiglio di Stato ha pertanto accolto le argomentazioni dei ricorrenti, ribadendo che la normativa europea prevale sulle regolamentazioni nazionali e che il decreto francese, introducendo limitazioni non previste dal diritto dell'UE, risulta privo di una valida base giuridica. In particolare, nella sentenza sono stati richiamati l'articolo 38 del Regolamento (UE) n. 1169/2011 che impedisce agli Stati membri di adottare misure che limitino la libera circolazione dei prodotti conformi alla normativa europea, e l'articolo 17, che stabilisce che la denominazione di un alimento deve seguire la denominazione legale se esistente, oppure un nome usuale o descrittivo chiaro per il consumatore.
Per concludere...
Le pronunce analizzate in materia di denominazione dei prodotti a base vegetale offrono uno spaccato significativo del delicato equilibrio tra tutela del consumatore, libertà d’iniziativa economica, concorrenza leale e armonizzazione normativa nell’ambito del diritto dell’Unione europea. Il caso francese, con l’annullamento del decreto n. 2024-144 da parte del Consiglio di Stato, che si basa sulla decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C-438/23 del 4 ottobre 2024, mostrano una chiara tendenza a contenere le iniziative normative nazionali che, in assenza di un rischio concreto di confusione, si pongano in contrasto con il principio di proporzionalità e con la libera circolazione delle merci nel mercato interno.
Tale impostazione evidenzia una lettura evolutiva delle norme in materia di informazione alimentare, orientata alla salvaguardia dell’informazione corretta e trasparente per il consumatore piuttosto che alla rigidità lessicale delle denominazioni.
La CGUE con la decisione del 2024 si distanzia pertanto dalla previa sentenza del 14 giugno 2017, causa C-422/16, Verband Sozialer Wettbewerb eV c. TofuTown.com GmbH, nella quale gli stessi giudici di Lussemburgo si erano espressi in senso opposto in riferimento alle denominazioni tradizionalmente riservate ai prodotti lattiero-caseari. In quel caso, la Corte aveva interpretato l’articolo 78 del Regolamento (UE) n. 1308/2013, in combinato disposto con l’Allegato VII, Parte III, e con la Decisione 2010/791/UE, affermando l’illegittimità dell’uso di termini come “latte”, “burro”, “formaggio”, “panna” o “yogurt” per prodotti esclusivamente vegetali, anche quando accompagnati da specificazioni descrittive volte a chiarirne la reale composizione e origine (D. Pisanello 2017). La Corte aveva quindi confermato il carattere tassativo della riserva delle denominazioni in ambito lattiero-caseario, valorizzando l’obiettivo di protezione delle denominazioni legali e di prevenzione di qualsiasi rischio di confusione, anche potenziale, per i consumatori.
Il confronto tra le due sentenze solleva interrogativi sulla coerenza dell’orientamento giurisprudenziale in materia e, più in generale, sull’evoluzione interpretativa del diritto alimentare europeo. Mentre nel settore lattiero-caseario si mantiene un approccio restrittivo e vincolato alla riserva legale delle denominazioni, nel caso delle alternative alla carne emerge una maggiore flessibilità, fondata sul principio della trasparenza informativa e sull’idoneità della comunicazione commerciale a garantire il corretto orientamento del consumatore.
In questo contesto, resta aperto il confronto tra gli operatori dell’industria delle alternative vegetali, che rivendicano la possibilità di utilizzare denominazioni funzionali alla comprensione del prodotto da parte del consumatore, e le rappresentanze del comparto zootecnico, che insistono su una protezione più rigorosa delle denominazioni tradizionali in quanto espressione dell’identità e della qualità delle produzioni agroalimentari europee.
Sarà dunque la futura evoluzione del diritto dell’Unione, sul piano tanto normativo quanto giurisprudenziale, a delineare i confini entro cui gli Stati membri potranno intervenire nel disciplinare la denominazione dei prodotti alimentari. Il ruolo della Corte di Giustizia dell’Unione europea e delle istituzioni dell’Unione sarà determinante per assicurare un’applicazione coerente dei principi del mercato unico e per garantire che la regolamentazione del settore alimentare sia in grado di conciliare, in modo equilibrato, esigenze di trasparenza, tutela del consumatore, innovazione e sostenibilità.